L’effetto è in crescendo, se arrivi da Roma in treno usando un regionale. Già in partenza un africano mi sta seduto di fronte, uno di lato e nelle file dietro ce ne sono altri, Una di loro parla al telefonino a voce abbastanza alta da riconoscere quel particolarissimo inglese/africano personalizzato con accento partenopeo – o giù di lì.
A partire da Fondi, Formia ecc. cominciano a salire. Chi con valige e borse di plastica strapiene, chi con tablet e cellulari ultima uscita. Uno porta ripiegata tra le mani una copia della Torre di Guardia… A dispetto del: son tutti sporchi, delinquenti e… vu cumprà. Però, lo ammetto, l’aria diventa irrespirabile. Non li biasimo, so cosa vuol dire viaggiare tutto il giorno nei mezzi pubblici a basso costo, camminare instancabili sotto il sole e non avere un posto dove riposarsi. Io quest’esperienza la faccio a “casa loro”, loro la fanno a “casa mia”.
E mentre rifletto su queste cose siamo già a Napoli. Sono felice, felice di risentirne i rumori, i suoni, i richiami (che qualche volta quelli di africani e napoletani si confondono e devi girarti per accertarti se sono voci di “bianchi” o di “neri). Felice di rivederne i colori, la luce, l’apertura del cielo.
Ma neanche quando scendo in sotterranea per prendere la metro posso scordarmi che qui ritrovo l’Africa. Mentre aspetto sulla banchina mi avvicina una donna, africana ovvio – che va su e giù con il suo malloppo di cose da vendere e il suo piccolo legato sulle spalle. “Bella – qui a Napoli si usa così – compri qualcosa?“. Sono in Ghana, sono in Uganda, sono in Senegal, sono a Capo Verde… Sono in Africa.
Grande la mia Napoli che non fa così grande differenza! Grande per l’accoglienza. Grande per questo melting pot senza tante barriere.
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