Sono molte le donne nel mondo – di qualunque colore, religione, stato sociale – che trovano nella scrittura il mezzo per “uscire allo scoperto”. Portare fuori emozioni e drammi, spesso comuni a molte altre donne, lontane nello spazio e nel tempo ma unite comunque.
Lo diceva anche Buchi Emecheta, scrittrice nigeriana morta ieri a Londra dove ha vissuto da quando aveva 16 anni. Ci era venuta con il marito, anch’egli nigeriano e in sei anni aveva già partorito cinque figli. A 22, però, trovò il coraggio di lasciare un uomo spesso violento e una vita infelice.
Niente lavoro e cinque bambini da tirare su, ma Buchi ce l’ha fatta. Non solo. Ha ripreso a studiare ed è diventata una delle scrittrici anglo-africane più note. Ha persino fondato una casa editrice. Oltre a viaggiare il mondo e ricevere premi e riconoscimenti.
Più di venti libri, tra cui Second-Class Citizen, in cui racconta la difficoltà di vivere in un Paese straniero come donna e come africana. Molti sono i romanzi da cui emerge la sua storia personale, ma anche temi come la maternità, la schiavitù infantile, l’indipendenza delle donne attraverso lo studio.
“Non importa da dove veniamo, la maggior parte dei problemi per noi donne sono identici” diceva.
Lei aveva trovato una stanza tutta per sè. E non aveva aspettato. Aveva capito che doveva fare in fretta, quand’era ancora giovane. Doveva farlo per sè stessa e per tutte le donne che in futuro hanno tratto ispirazione dai suoi libri, dalle sue storie.
Parlava a tutte le donne, ma nello stesso tempo aveva messo in atto, nella sua vita quotidiana, quella politica che porta il nome di Womanism. Termine difficilmente traducibile, ma che raccoglie in sè la femminilità africana, le qualità, la forza e il coraggio di lottare da donna nera.
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