Ma quanto interessanti sono gli africani. Certo non generano indifferenza, oggi come ieri.
L’antropologia – e i suoi esperti – lo sa bene. Da secoli in questo continente si sono riversate frotte di scienziati sociali per analizzarne (degli africani) comportamenti, studiarne usi e costumi, registrare canti e lingue, disegnarne o fotografarne gli aspetti più curiosi. Curiosi, ovviamente, per noi occidentali – e anche asiatici.
Il fatto è che molti di loro facevano una scelta, si allontanavano dalla loro società e cominciavano una vita nuova, in mezzo a coloro che stavano “studiando”. Si stabiliva col tempo una relazione, una vicinanza. Qualcosa prima o poi scattava nell’antropologo, quando “percepiva” la vita della comunità che stava osservando, quando anche lui, magari, cominciava a fare le stesse cose, a sentire le stesse cose.
Ce ne saranno ancora magari. Ma oggi ce ne sono troppi della serie “un mese di ricerca e via”. Molti giovani al loro primo viaggio nell’Africa Sub-Sahariana. Spesso sono le Università – non necessariamente Facoltà di Antropologia – il loro tramite, atto conclusivo di studi teorici che riguardano l’Africa. Si cerca di carpire “segreti” e si spera magari in una pubblicazione accademica. Come se tre settimane bastassero, come se uno, due, tre mesi fossero sufficienti a capire storie, culture, sfumature.
Ho incontrato persone che volevano sapere tutto di un ritmo, le sue origini, l’ambito di provenienza, l’uso in certi contesti culturali; altri di come e perché le donne realizzano il black soap e che effetto faccia; altri ancora che le religioni tradizionali non sono più un mistero per lui. E via dicendo.
La cosa più divertente – ma anche triste – è che gli africani (chiedo venia per l’enorme generalizzazione) sono anche furbi. E intelligenti (guarda un po’). Intuiscono la superficialità – e possono quindi dare risposte superficiali. Riconoscono la competenza e si comportano di conseguenza. Vedono l’inesperienza e cercano di trarne vantaggio personale.
Dunque, bisogna andare molto cauti, valutare bene i numerosi studi, ricerche, analisi. Ci vuole umiltà, ci vuole osservazione silenziosa, ci vuole tempo – molto tempo, ci vuole spazio, ci vuole una vita.
Certo, bisogna fidarsi, ma oggi dove è così facile trovarsi a leggere qualunque cosa in Rete, occorre anche una propria conoscenza specifica per valutare quanto affidabile sia chi scrive e che il suo lavoro non sia semplicemente il frutto di incontri brevi con situazioni e realtà troppo complesse per essere valutate attraverso interviste o questionari.
Il pericolo, grosso, si chiama approssimazione. Che magari può aiutarci a capire soprattutto quanto ci sia molto altro da capire. O, semplicemente, da conoscere.
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