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Yevu, quell’urlo della Storia che mi mette a disagio

Yevu, yevu, yevu… È una cantilena infinita che ti segue quando entri nei piccoli villaggi, quando vai ai mercati, quando entri in una scuola. Dopo il primo momento di stupore – il riconoscimento dell’estraneo che entra, chissà perché, nella tuo ambiente, nella tua vita – la cantilena ha inizio.

Prima un bambino, poi due, poi l’intero villaggio di bambini, l’intera scuola. Una cantilena, ma anche un urlo, tanto che spesso la sensazione non è quella dell’accoglienza, del saluto.

La sensazione – che spesso mi ha preso e poi travolta – è quella, al contrario, del rifiuto. La sensazione di dar vita a un rituale che non è quello – apparente – del benvenuto. La stessa, spiacevole, sensazione provocata da quel yevu sussurrato da una persona adulta. La sensazione che quel sussurro sia in realtà un urlo.

Un urlo soffocato, ancestrale, che non ha niente a che fare con l’accoglienza ma con la voglia di mandarti via. Lontano da dove sei venuto.

Yevu vuol dire uomo (o donna) bianco, tra gli Ewe che abitano la Regione del Volta in Ghana, ma che sono anche sparsi in Togo, in Benin, Liberia, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria.

Ma non è proprio così e io voglio pensare che il significato vero non mi rappresenti, che nel mio sangue non ci sia il sangue degli yevu a cui – in origine – la parola si è riferita.

Come sempre bisogna andare a fondo della storia. Mi riferisco alla Storia accaduta, che non è sempre quella raccontata. O meglio, si perde in ricostruzioni, cancellazioni, revisionismi.

È la Storia accaduta quella in grado di dare risposte al perché una cantilena apparentemente ingenua: yevu, yevu, yevu… mi fa sentire a disagio e mi sembra una folla arrabbiata che mi insegue. Perché yevu sussurrato da un donna che vende pesce al mercato mi sembra un urlo, un’accusa.

Perché è così! Quella voce modulata dei bambini È una folla arrabbiata. Quel sussurro È un urlo.

Negli anni il significato letterale di yevu si è perso. Quei bambini non lo sanno cosa vuol dire. Ma tra gli adulti c’è ancora chi lo sa. Sanno che Yevu è una contrazione di Aye che significa intelligente, ma anche furbo e Avu, che vuol dire cane. Quello che vuol dire Yevu, dunque, è “cunning dog”, cane furbo che finge di essere carino con te e poi ti morde. Ed è riferito ai bianchi. Dai tempi della tratta degli schiavi.

Un’espressione ancora più forte di Obroni, usata dagli Ashanti e che vuol dire wicked man, e un uomo debole fa cose sbagliate, storte. Immagino che anche altri termini per “identificare” noi bianchi, vadano oltre la semplicistica e politically correct traduzione di uomo bianco.

Grazie alle mie letture e a chi finalmente mi ha svelato il significato reale di questa parola sono riuscita, dopo anni, a dare una risposta alle sensazioni spiacevoli che provo quando mi chiamano yevu.

I bambini non lo sanno ma inconsapevolmente ricordano quel tempo in cui qui si veniva per fare affari con gli esseri umani. Commercio di esseri umani.

Era tutta una compravendita. Si facevano accordi con i chief locali, i raid nei villaggi procuravano la merce, questa veniva venduta al miglior offerente, il miglior offerente la trasportava – attraverso l’Oceano – nei campi di cotone negli Stati Uniti o nei Caraibi. E da lì catena di montaggio: raccolto, morte di stenti o per frustate e malattie, sostituzione della merce e via discorrendo.

Ho sempre detto che non si può e non ci si deve sentire colpevoli di cose che non abbiamo fatto, però quel GRIDO, yevu, mi ha sempre messo a disagio. E ora ho una risposta.

Pensavo che ad infastidirmi fosse solo essere privata del nome, un po’ come quanto accadeva con Nigger o Boy. Persone che non erano più persone ma oggetti, significati. Semplicemente oggetti e il significato che quelle parole impietose si portavano dietro.

Accade ancora. Quel yevu è tutto tranne che un annuncio di benvenuto. E non è solo essere privata del nome.

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