Mentre oggi ci si affanna per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali o delle coppie di fatto, i matrimoni tra donne in Africa nel XVII e XVIII secolo erano parte di un modello sociale approvato e diffuso. Almeno fin a quando il mondo occidentale, la colonizzazione, le regole e le religioni dei missionari non hanno cancellato culture e tradizioni.
Alcune (del genere di cui parliamo) sono tenacemente rimaste in vita, come scrivevo in questo articolo, altre sono scomparse. In alcune aree del regno Dahomey (oggi Benin), nella Nigeria orientale e in alcune parti dell’Africa meridionale il matrimonio tra donne era una pratica diffusa, coinvolgeva entrambe le famiglie, il pagamento della dote e una cerimonia.
A matrimonio avvenuto una donna svolgeva il ruolo della moglie e l’altra quello del marito che, se era di stato sociale elevato, poteva accedere a titoli onorifici riservati agli uomini. Se una donna era ricca, nelle comunità che consentivano la poligamia, poteva anche permettersi più di una sposa.
Di solito – come spiega Face2Face Africa – si trattava di donne dedite al commercio e che avevano un certo potere nella comunità, anche sulle decisioni politiche. Come avveniva tra gli Igbo in Nigeria. Anche le sacerdotesse e le guerriere potevano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, come nel regno Dahomey.
Poteva anche avvenire che, quando in famiglia non ci fossero discendenti maschi, la figlia femmina fosse costretta a fare la parte dell’uomo e quindi a sposarsi con una donna. Di solito, una delle due donne concepiva figli con uomini in stato di schiavitù e i bambini appartenevano alla moglie. Poteva anche avvenire che una donna sposasse una vedova e ne sostenesse i figli.
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