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Come un pezzo di stoffa è diventato un simbolo di resistenza e identità

Simbolo di sottomissione e schiavitù. Simbolo di lotta e di identità. Simbolo della bellezza e della femminilità africana. Un panno, semplicemente un panno, spesso coloratissimo, rappresenta tutto questo. Si mette in testa e lì si gioca a creare forme, dalle più semplici a quelle più complesse, a volte bizzarre.

L’evoluzione di questo, che è un vero e proprio capo di abbigliamento, ha una dimensione circolare. Parte dall’Africa sub-sahariana, si sviluppa negli Stati americani schiavisti, torna nel continente africano.

Era il 1735 quando la Carolina del Sud promulgò una legge che stabiliva regole sull’abbigliamento dei neri. Il “fazzoletto” per le donne era uno di questi. Ma quella della Carolina del Sud era solo una delle tante legislazioni emanate prima della guerra civile americana, che mise a confronto il Nord abolizionista contro il Sud schiavista.

Comunque sia, durante la schiavitù i padroni bianchi imposero alle schiave di indossare un  fazzoletto, che divenne quindi simbolo, tratto distintivo di quella condizione. L’obiettivo, si disse, era fare in modo che le donne nelle piantagioni o anche quelle che erano impiegate in casa, fossero sempre a posto. Bisognava poi evitare che sudassero sotto il sole cocente del Sud. Infine, il fazzoletto, era anche una barriera contro i pidocchi.

Ma le motivazioni erano, appunto, soprattutto altre. A chiedere un intervento legislativo pare furono le donne bianche, madri, mogli, figlie dei padroni, che vedevano nelle schiave – soprattutto, con il passare del tempo, delle mulatte – un elemento di “distrazione” per i loro uomini. E poi, non potevano certo ammettere – è stato scritto – che andando in giro per mercati o quando servivano in casa, ci fosse il minimo  dubbio sul ruolo della donna nera al fianco di quella bianca.

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Foto d’archivio (Hulton/Getty Images).  St. Augustine, Florida, 1850 circa

Non è un caso che ci fosse una differenza tra il modo delle bianche di indossare un fazzoletto (annodato sotto il mento) e quello delle donne nere, annodato dietro la nuca. Un modo, è stato detto poi, che permetteva loro di “camminare a testa alta“, indomite sotto il peso dell’oppressione.

Il fazzoletto diventò, dunque, un segno distintivo che finì per associarsi ad uno stereotipo, quello della “zia nera”, o della mammy, il cui compito nella vita era quello di crescere e coccolare i bambini bianchi dei padroni. Uno stereotipo inscatolato in un brano musicale del 1876, all’epoca assai famoso, “Old Aunt Jemima“.

Ma l’uso del fazzoletto finì per evolvere e andare in tutt’altra direzione, per assumere un tutt’altro significato: quello della ribellione, o meglio, della resistenza.

Come è stato spiegato da alcuni storici, fini per essere indossato come un “elmetto di coraggio“. È diventato tratto distintivo, uniforme di una comune identità.

Alla fine – come afferma la studiosa Helen Bradley Griebel – furono le discendenti degli schiavi a determinarne il significato e l’uso per le future generazioni.

screen-1.jpgOggi i turbanti sono espressione di gioia, bellezza, vitalità. E, ovviamente, hanno i loro significati sociali. Ad indossarlo sono quasi sempre solo le donne sposate, non le giovani che vanno a capo scoperto. La loro ricchezza, in colori, fatture, stoffe, è legata alla posizione sociale di chi lo indossa, suggerisce se è sposata, vedova o fidanzata. Ma è anche legata a specifiche occasioni, come funerali, incontri politici pubblici, cerimonie religiose.

E anche il nome è segno di creatività e distinzione. Ogni Paese, o gruppo etnico, ha il suo.  Duku in Malawi e Ghana; Tukwi in Botswana; Gele in Nigeria e in altre parti dell’Africa occidentale; Moussur in Senegal; Doek in Namibia e Sud Africa; Chitambala in Zambia; Dhuku in Zimbabwe.

Ma ce ne sono ancora molti altri.

Stili semplici o meravigliosamente regali, colore unico o, molto più spesso, multicolor e con forme artistiche ricercate, comunque sia il turbante, fazzoletto, copricapo o come lo si voglia chiamare è senza dubbio uno degli oggetti più belli, significativi e interessanti della cultura e dello stile delle donne sub sahariane.

E non è un caso se negli ultimi anni si stia diffondendo – o stia tornando in auge – anche nel resto del mondo, tra le donne afro-europee e afro-americane, come forma di identità e valorizzazione delle proprie origini, della propria Storia. Passata e presente.

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Per chi volesse approfondire la dimensione storica dell’headwrap segnalo il saggio di Helen Bradley Griebel, The African American Woman’s Headwrap: Unwinding the Symbols

 

 

 

 

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