Nel 1996, tra gennaio e giugno, una grave epidemia di meningite scosse la Nigeria. L’infezione si diffuse in 12 Stati del Paese nell’arco di sei mesi. Furono 109.580 i casi registrati, con un tasso di mortalità del 10,7%, una persona su dieci moriva dopo aver contratto la malattia. Si trattò della più grave epidemia mai registrata in Nigeria e in tutta l’Africa nel secolo scorso.
Il più colpito fu lo Stato di Kano, nel Centro Nord del Paese. A fronteggiare l’epidemia una task force nazionale istituita dal ministero federale della Sanità, dall’OMS, dall’UNICEF, dall’UNDP, da Medici senza frontiere, dalla Croce rossa internazionale e diverse altre organizzazioni non governative.
E poi c’era la Pfizer, azienda farmaceutica statunitense, con il suo farmaco, il Trovan, un antibiotico in fase di sperimentazione. Gli operatori sanitari si dicevano certi che questo avrebbe curato la malattia, anche se non era stato ancora approvato per tale uso o per il trattamento dei bambini dalla US Food e Drug Administration (FDA). In sostanza il farmaco fu somministrato come sperimentazione, tra gli altri, a circa 200 bambini.
Come è noto, la somministrazione di farmaci in via sperimentale richiede il consenso da parte del paziente (del genitore o di chi ne fa le veci in caso di minore) e la Pfizer ha sempre sostenuto di aver ottenuto tale consenso. Consenso in forma verbale. E che tutti i necessari esami e test erano stati eseguiti sui bambini prima di procedere alla somministrazione del farmaco.
Ma molti protagonisti di ciò che avvenne durante e dopo la pandemia, con i suoi strascichi e gli effetti collaterali del Trovan, raccontano un’altra storia. Testimonianze e ricostruzioni sono state pubblicate da Unbias The News e sono il risultato del lavoro di un team di giornalisti investigativi.
Dei partecipanti al processo di sperimentazione, 11 bambini morirono e decine di altri sono rimasti con lesioni debilitanti: cecità, paralisi, sordità e deficit neurologici. Ma l’azienda si è defesa sostenendo che queste siano state il risultato della meningite, non dei farmaci somministrati. Comunque sia, ricorda Unbias The News, nel 1998 la licenza per il Trovan per l’uso da parte degli adulti è stata ritirata dall’Agenzia medica europea, proprio a causa delle preoccupazioni per i gravi problemi conseguenti all’uso e i decessi multipli. Per gli stessi motivi, fu poi ritirato dal mercato statunitense nel 1999.
La vicenda aprì il cosiddetto contenzioso di Kano e nel giugno 2007, il Governo federale nigeriano e quello dello Stato di Kano intentarono azioni penali e civili contro l’azienda farmaceutica e altri otto imputati, chiedendo 7 miliardi di dollari di danni. In sostanza, si accusava la società di aver testato un farmaco sperimentale non approvato sui bambini senza il consenso informato dei genitori, né l’approvazione del Governo nigeriano. E il Washington Post all’epoca parlò di irregolarità e manomissioni dei documenti che stabilivano il consenso all’uso sperimentale dell’antibiotico.
La conclusione del processo – tramite un accordo – ha portato a un risarcimento di alcune delle famiglie colpite, ma Pfizer non ha mai ammesso di aver commesso illeciti e ha sempre continuato a sostenere che le procedure sono state corrette e che, anzi, hanno consentito di salvare delle vite.
Ha senso a questo punto citare uno studio intitolato “Ethics of Clinical Trials in Nigeria“, in cui il dottor Patrick I. Okonta della Delta State University in Nigeria, racconta di come i Paesi in via di Sviluppo offrano condizioni notevolmente interessanti per le aziende che sperano di ridurre al minimo il prezzo delle sperimentazioni farmaceutiche.
I giornalisti che hanno ricostruito il caso sottolineano quanto certe pratiche siano state adottate in spregio al Codice di Norimberga e alla Dichiarazione di Helsinki che riguardano appunto la sperimentazione – e il fattore etiuco e del consenso – su esseri umani.
A livello nazionale va detto che la Nigeria non ha promulgato alcuna linea guida formale per la conduzione della ricerca che coinvolge soggetti umani.
Il ricordo della sperimentazione del farmaco Pfizer è rimasto impresso nella memoria di chi ne ha subito le conseguenze ma anche nell’intera popolazione – e non solo quella nigeriana. Memorie tornate a galla con la pandemia di Covid-19 e che spiegano i dubbi persistenti sulla somministrazione dei vaccini.
Dal Congo al Malawi al Sud Sudan, dosi dei vaccini scaduti sono state distrutte, cosa che solleva non poche preoccupazioni sull’efficacia di uno sforzo di vaccinazione globale che per essere efficace richiede la partecipazione di massa. Uno scetticismo – quello dei nigeriani – che può essere ricondotto alla vicenda di Kano, ma non che riguarda solo questo Paese. Molti infatti sono gli africani che giudicano la campagna di vaccinazione come una sorta di imperialismo occidentale sull’Africa.
Molti sono i miti e le credenze intorno agli effetti e alle “motivazioni” che stanno dietro l’inoculazione dei vaccini. A cui vanno aggiunti quei leader religiosi che continuano a fare pressioni sui fedeli contro l’assunzione dei vaccini poiché – dicono – portano radiazioni di frequenza 5G. Mentre esiste un silenzioso movimento no vax che in questi mesi ha spinto alcuni leader africani a invitare pubblicamente (e cercare di convincere) i propri cittadini a presentarsi nei centri vaccinali e a non dare ascolto a pregiudizi e leggende.
Movimenti che sono in realtà individui che non si raccolgono sotto una bandiera o un partito, ma che spontaneamente condividono dubbi e perplessità sul valore della medicina occidentale.
Intanto, secondo i dati forniti dall’Africa Centres for Disease Control and Prevention, solo il 3.27% della popolazione africana ha completato il ciclo vaccinale. E questo su una popolazione di oltre 1 miliardo e 300 milioni di abitanti. Conforta la bassa percentuale dei casi (confrontata naturalmente con il numero di abitanti). Ad oggi i casi sono 8,156,048, 206,432 i decessi.
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