“Preferirei andare all’inferno che in un paradiso omofobico”. Sono le parole potenti che Desmond Tutu pronunciò nel 2013 nel corso di una campagna per i diritti dei gay in Sudafrica.
Era questo lo stile dell’arcivescovo sudafricano morto il 26 dicembre scorso, all’età di 90 anni e di cui domani 1 gennaio 2022 si svolgeranno i funerali. Netto, chiaro, deciso, senza mediazioni né ipocrisie nel mettere la sua vita al servizio dell’essere umano. Di ogni essere umano, si trattasse di lottare contro il razzismo e il disumano regime dell’apartheid, la piaga della povertà e dell’HIV/AIDS o per i diritti LGBTI.
Quel premio Nobel per la Pace, assegnatogli nel 1984, voleva dire per lui pace vera, per tutti. Pace uguale diritti. Pace uguale giustizia. Pace senza discriminazioni. Di nessun tipo. Per questo motivo l’arcivescovo sudafricano rappresenta il simbolo reale della nazione arcobaleno.
Di lui si conosce bene il suo attivismo, la sua fede. Una storia ricca e preziosa dove al centro di ogni decisione, di ogni azione, c’era lui, l’essere umano. E la sua dignità. In anni più recenti Tutu era diventato noto anche per la sua forte difesa sui temi della sessualità, in particolare dei diritti delle persone lesbiche e gay. Un percorso in realtà cominciato molto tempo fa e raccontato nel libro Reimagining Christianity and Sexuality in Africa, di Adriaan van Klinken ed Ezra Chitando, pubblicato recentemente.
Se questo ha fatto crescere la sua reputazione internazionale di pensatore (e religioso) libero e progressista, soprattutto nel mondo occidentale, da un’altra angolazione, soprattutto nel continente africano, gli provocò critiche feroci. Come quella, spesso citata, di un altro vescovo anglicano, il nigeriano Emmanuel Chukwuma, che di lui disse: “è spiritualmente morto”.
Ma un uomo spiritualmente morto non ha coraggio delle sue azioni, ha paura di parlare, scende a patti e certo non dice:
Non mi interessa raccogliere briciole di compassione gettate dalla tavola di chi si considera mio padrone. Voglio il menù completo dei diritti.
Questo menù completo comprendeva anche i diritti dei gay. Nel 1994, poco dopo la fine dell’apartheid scrisse:
Se la Chiesa, dopo la vittoria sull’apartheid, cerca una degna crociata morale, allora è proprio questa: la lotta all’omofobia e all’eterosessismo.
Nel 1984 definiva l’apartheid “un’eresia” nel senso di contrario agli insegnamenti cristiani e “una blasfemia”. Un decennio dopo utilizzò lo stesso termine per dire:
l’ultima bestemmia è far dubitare le persone lesbiche e gay di essere davvero figli di Dio.
Queste convinzioni fecero sì che nella Costituzione sudafricana adottata nel 1996, si includesse una clausola di non discriminazione in base all’orientamento sessuale. Si trattava del primo Paese al mondo a farlo. Così come fu il primo Paese africano (e rimane l’unico) ad aver introdotto, nel 2006, il matrimonio tra persone dello stesso sesso più una serie di altre norme legali. E anche se l’omofobia nel Paese rimane un problema certo le leggi sono leggi e aiutano anche a cambiare l’atteggiamento delle persone sulla questione.
Ad avvantaggiarsi di quella legge e a sposarsi con la sua compagna, nel 2015, fu la stessa figlia dell’arcivescovo sudafricano, Mpho Tutu. Fu costretta suo malgrado a dimettersi dall’incarico che ricopriva all’interno della Chiesa anglicana. Ma alla coppia non mancò la benedizione del padre.
Che Desmond Tutu fosse un uomo aperto al dialogo e sempre pronto ad ascoltare e imparare lo dimostrano le sue scelte, le sue amicizie – quella con il Dalai Lama, per esempio – la sua partecipazione a cerimonie cattoliche o il suo studio dell’Islam.
Un ecumenismo, quello di Desmond Tutu, applicato non semplicemente teorizzato. Un modo di vivere concreto, calato nella realtà, così come esigevano le lotte per i diritti civili portate avanti per anni con l’amico Nelson Mandela.
Fu proprio Mandela, quando diventò il primo presidente nero del Sudafrica (dopo anni di resistenza all’apartheid e 27 anni di prigione) a nominare Tutu a capo della Commissione per la Verità e Riconciliazione.
Ora ci si domanda se con la morte di Mandela prima e di Desmond Tutu ora, l’eccezionalità morale del Sudafrica sia finita. Certo l’eredità è enorme, così come l’orgoglio di aver avuto figure così eccezionali. Africani. Con un grande lascito.
Rimane importante l’equazione proclamata da Tutu tra uguaglianza razziale e sessuale, equazione che sottolinea come la lotta per la giustizia, l’uguaglianza e i diritti umani siano interconnessi: non è possibile rivendicare diritti per alcuni negandoli poi ad altri.
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