Mancano pochi giorni, poi migliaia e migliaia di ettari di vegetazione e di terra congolese passerà nelle mani del migliore offerente. Di quegli investitori stranieri a cui il Governo della Repubblica Democratica del Congo affiderà – con un’asta – 27 blocchi per lo sfruttamento del petrolio e 3 per l’estrazione del gas. Altra, enorme ricchezza di questo Paese così ricco e “adatto” quindi allo sfruttamento (a detrimento delle comunità locali, come spesso accaduto).
All’inizio si era parlato di 16 aree ( di cui tre in mare) sulle 32 dove sono stati scoperti giacimenti, ma evidentemente la domanda è tanta e questo ha determinato l’aumento dell’offerta. La cessione sarà affidata attraverso bandi che si terranno il 28 e 29 luglio. Procedure limpide, si assicura, ma i congolesi sono convinti che di limpido sul loro territorio rimarrà ben poco quando cominceranno le trivellazioni.
Ci sono molte fonti che affermano che alcuni blocchi dove avverrà l’estrazione si trovano nel Parco Nazionale di Virunga, un’area naturale protetta situata nella provincia del Nord Kivu a Est del Paese.
Se lo sfruttamento dei minerali ha significato l’inferno per molta parte della popolazione civile nel Paese, il petrolio – ha assicurato Didier Budimbu, ministro degli Idrocarburi – determinerà un introito di circa 2.000 miliardi di dollari. Un beneficio economico che sarà ripartito tra tutta la popolazione, dice. “Grazie al petrolio, questo Paese può davvero svilupparsi, non lo abbiamo per ornamento, ma per poterlo usare ed è quello che faremo”.
Ai cittadini riesce difficile credere alle rassicurazioni del ministro. Anni di sfruttamento selvaggio delle risorse, con conflitti e violenze proprio verso le popolazioni locali sono un triste esempio di quanto le ricchezze della RDC si siano rivelate una maledizione per i cittadini più che un beneficio.
E suonano come una beffa le parole del deputato Lucain Kasongo, secondo cui “oggi, in Africa, i Paesi che sono sufficientemente avanzati non sono quelli che sfruttano rame e diamanti, ma quelli che sfruttano il petrolio”.
Uno schiaffo alle sofferenze che i cittadini hanno sopportato e continuano a sopportare in quelle miniere dove lavorano in condizioni spaventose e non di certo per arricchire se stessi. Pensiamo solo allo sfruttamento dei bambini nelle miniere informali di cobalto. Nessuno sa con esattezza quanti vi siano occupati – alcuni hanno solo sei anni – si parla di almeno 40.000 ma queste sono solo le cifre ufficiali.
È dal 1994 che il Paese è scosso da guerre civili e conflitti con Stati confinanti e al 1990 risale quella che fu definita la Grande Guerra d’Africa, il conflitto più mortale dai tempi della Seconda guerra mondiale. Il motivo? Lo sfruttamento dei minerali. A cominciare dal coltan – senza il quale non ci sarebbero i cellulari – e poi stagno e tungsteno, definiti 3T, ampiamente utilizzati in apparecchiature elettroniche, computer e sistemi automobilistici e aeronautici. Insomma, la nostra società non può farne senza.
Ma è proprio lo sfruttamento di queste risorse che hanno determinato il moltiplicarsi di gruppi armati (e di conflitti), come hanno documentato molti report.
Tra questi quello di Global Witness che ha messo anche in luce il riciclaggio dei minerali e i flussi di denaro – non certo distribuito tra la popolazione e per infrastrutture o servizi sociali. Miniere occupate da milizie che commerciano con agenti esteri e persino con Governi confinanti con la RDC. Sotto i riflettori – anche da parte della comunità internazionale – è la posizione del Rwanda e del suo capo di Stato, Paul Kagame, e la “crisi diplomatica” in corso tra i due Paesi. Kagame, in particolare è accusato di usare il famigerato gruppo di ribelli che va sotto il nome di M23. Uomini senza scrupoli e che continuano ad avanzare senza sosta anche verso le città, seminando terrore.
Del resto in questa parte del mondo la violenza è sistematica. Sono oltre 130 i gruppi armati attivi nel Nord e Sud Kivu e nella provincia dell’Ituri. Proprio quelle aree dove le ricchezze minerarie sono in abbondanza su scala mondiale. In questo scenario di instabilità, violenze e abusi – dove la missione MONUSCO delle Nazioni Unite, cominciata nel lontano 1999 riesce a portare solo un minimo di autorità – si è perpetrata l’uccisione, nel febbraio dello scorso anno, dell’ambasciatore italiano, Luca Attanasio. E con lui il carabiniere e uomo di scorta, Vittorio Iacovacci e l’autista congolese, Mustapha Milambo. Eppure quella missione è molto cirticata dalla popolazione che non ha visto nessun cambiamento nel corso degli anni e oggi viene presa di mira da manifestazioni e attacchi alle sue sedi.
Situazioni che negli anni hanno provocato un numero enorme di sfollati, almeno 5,5 milioni. Oggi il Paese, anzi i leader politici del Paese, puntano sulla nuova ricchezza da poco scoperta, il petrolio. E non saranno le ONG ambientaliste né le preoccupazioni espresse dalla comunità internazionale a fermare il processo in corso.
La stessa ministra dell’Ambiente, Eve Bazaiba è stata chiara: “Saremo noi a decidere”. Il Congo ha aggiunto – si trova ora a dover scegliere: “Il petrolio è il barometro dell’economia, quando si ha difficoltà ad accedere al petrolio, il prezzo dei servizi, delle merci, della vita salgono. Ma quando si ha accesso al petrolio, questi diminuiscono e anche la popolazione se ne avvantaggia. Abbiamo le risorse del suolo e del sottosuolo. È su questo che tratteremo con il resto del mondo”.
Insomma, il messaggio della ministra è chiaro: “Dovremmo noi, la RDC, sacrificarci e non sfruttare il nostro petrolio per le esigenze di protezione dell’ambiente? In cambio di cosa? Perché quando proteggiamo l’ambiente, non lo facciamo solo a beneficio del Congo ma di tutta l’umanità”. “Non possiamo salvare il pianeta“.
Nel Paese, in ogni caso, gli attivisti sono preoccupati sì per l’ambiente ma anche per l’impatto che il mutamento delle aree all’asta per l’estrazione avrà sulla vita dei suoi abitanti. Mutamenti geografici, sociali, relazionali…
In gioco c’è la vita di intere comunità, di milioni di congolesi, che non sono stati neanche minimamente coinvolti nelle decisioni. Il 72% della popolazione (oltre 90 milioni di abitanti) vive con meno di due dollari al giorno. Solo il 23% delle famiglie che vivono nelle aree rurali ha accesso a fonti di acqua potabile, e solo il 20% ai servizi sanitari.
Chissà se un po’ di quei 2.000 miliardi di dollari previsti dallo sfruttamento delle aree petrolifere serviranno per rendere la vita migliore a queste persone. Vogliamo infine ricordare le parole pronunciate qualche giorno fa dal cardinale e inviato del Papa a Kinshasa, Pietro Parolin: “L’avidità per le materie prime, la sete di soldi e di potere tengono chiuse le porte della pace e rappresentano un attacco contro i diritti degli individui alla vita e alla serenità”.
[Pubblicato anche su La Repubblica – Mondo Solidale]
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