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Donna, Africa, Libertà, Stereotipi: una riflessione

Partiamo dal titolo. Perché ho messo insieme queste quattro parole – Donna, Africa, Libertà, Stereotipi?

Perché queste quattro parole sono strettamente collegate. Sia alla mia vita ed esperienza personale e professionale, sia ad una forma di società in cui noi donne, probabilmente più di altri, siamo condizionate da regole, pregiudizi, e anche – come dire – “consigli” che ci provengono da diversi ambienti, su come essere, come comportarci, quali atteggiamenti sono consoni e quali no.

Ma per andare oltre bisogna essere liberi e avere la mente sgombra da luoghi comuni e tabù.

Quando ero nella prima adolescenza c’era una cosa che mi preoccupava: quella che da adulta non avrei avuto pensieri miei, originali, autonomi. Certo, era un pensiero strano. Su cosa si poggiava? Credo, pensandoci poi in seguito, che fosse un pensiero dettato dall’ambiente che mi circondava in cui sembrava che gli adulti maschi, ma anche mio fratello che era più piccolo di me, avessero o dovessero avere più voce in capitolo.

Anche se poi le donne della mia famiglia che alla fine era una famiglia matriarcale – facevano quello che volevano, decidevano loro, soprattutto in casa, ma l’autorità acquisita per diritto dai maschi, non si discuteva.

Ecco, poi il mio timore non si è dimostrato affatto fondato perché anche io – come le altre donne della famiglia ho fatto quello che volevo – ma soprattutto ho acquisito una forte consapevolezza che il mio pensiero, i miei sentimenti, il mio parere contavano. E quindi dovevo andare in quella direzione.

Se ci pensiamo bene tutti i diritti che sono stati nel tempo negati alle donne – e tuttora avviene – sono legati a due costanti, il patriarcato che genera violenza (pensiamo cosa sta accadendo in Iran o Afghanstan) e lo stereotipo. Come quello che non puoi, o non potevi accedere a determinate carriere perché non adatte alle donne.

A questo proposito cito una battuta di un film su Lidia Poët, prima avvocata in Italia, battuta – modo di pensare – che è un po’ una costante anche adesso (citavo Iran e Afghanistan…): “Se Dio avesse voluto che tu fossi avvocato ti avrebbe fatto nascere uomo”. Come se fosse Dio ad aver fatto le leggi e non gli uomini.

Ebbene, su questo assunto, su una frase come questa si chiude lo spazio di discussione. E si generano le negazioni dei diritti: quello all’istruzione, alla libera scelta della maternità e così via.

Ma anche le relazioni, anche quella tra me e voi stasera, possono essere influenzate da luoghi comuni. O da aspettative che ancor prima che a qualcosa di concreto sono legate alle idee che ci siamo fatti.

Attenzione, perché i luoghi comuni non sempre sono dettati dalla saggezza ma al contrario dall’ignoranza e direi anche dalla pigrizia. È più facile pensare pensieri condivisi dalla moltitudine, adagiarsi su convinzioni che neanche abbiamo però sperimentato di persona, che esplorare nuove strade, nuove possibilità.

È quello che accade anche nel mestiere che faccio. Mi sono trasferita in un Paese africano – e cerco di muovermi in altri Paesi ogni volta che è possibile – per la necessità di capire, di osservare, di parlare con le persone, anche di vivere la loro vita – e ho scelto di vivere in un’area rurale.

L’informazione che riguarda l’Africa è fortemente influenzata dai pregiudizi, dai clichè, che si sono accumulati nei secoli a partire dai primi racconti dei mercanti, esploratori, missionari che hanno contribuito a creare un immaginario di questo continente e dei suoi abitanti che più spesso che no era basato non sulla realtà ma che doveva giustificare lo sfruttamento dei territori, la schiavizzazione, la colonizzazione e così via.

Ricordate la poesia di Kipling, Il fardello dell’uomo bianco? Dove il nero, l’uomo africano viene presentato un po’ selvaggio un po’ eternamente fanciullo e come tale bisognoso di essere civilizzato.

Una mentalità che non è scomparsa ma ha semplicemente preso altre forme. E ancora oggi si continua a perpetuare una narrazione per la quale l’Africa viene associata solo a povertà, guerre, fame e malattie. E, aggiungo, bisogno.

Beh, mi sono detta, ok vado a farmi un’idea mia. Non si può scrivere d’Africa standosene in una redazione a migliaia di kilometri e non riuscire neanche a puntare sul mappamondo il Paese le cui storie si stanno raccontando, scrivendo.

Ed ogni giorno è una rivelazione, una scoperta. Ma soprattutto mi serve a ribaltare il punto di vista e dunque l’opinione. Per esempio quando vediamo una donna al mercato, magari stanca, col bambino sulla schiena, sotto il sole pensiamo forse: poverina.

Invece io oggi penso all’intraprendenza e alla libertà di queste donne che, per esempio, non vengono additate o giudicate perché hanno figli e non hanno un marito e magari più figli con uomini diversi. Donne che hanno un’innata capacità imprenditoriale (altro che poverine), che tengono insieme il tessuto sociale e contribuiscono all’economia locale.

Come anche oggi sto attenta a usare la parola povertà. Chi ha scelto i parametri per stabilire questo concetto? Chi ha deciso che non possono esserci modelli di vita alternativi? È un grosso equivoco che poi ha dato vita alla dipendenza dagli aiuti, allo scrollarsi di dosso (soprattutto da parte di certe élite politiche) responsabilità o anche a non dare valore alla propria esistenza perché quella degli altri è migliore.

Ma ora abbandono questo discorso – che vorrebbe un tempo e un luogo specifico – per tornare alla questione stereotipi. Cito spesso Chimamanda Ngozi Adichie, la scrittrice nigeriana e il suo discorso “The danger of a single story”, il pericolo di una storia unica. Chimamanda dice non è che lo stereotipo non abbia aspetti di verità (io, per esempio, sono napoletana e a Napoli tutti amiamo la pizza), la questione è che soffermandosi su quella singola storia quella diviene l’unica verità.

E di solito – vi parlavo della narrativa stereotipata sull’Africa che si è creata proprio su questa storia a senso unico – a cucire queste single stories sono quelli che hanno potere. E possono essere la stampa, appunto, gli Stati nazionalisti, le religioni persino.

Vi invito a leggere un testo poderoso ma molto educativo per chi continua ad avere una visione eurocentrica. Il libro di Howard French si intitola “Born in blackness”. L’autore ribalta l’asse, il punto di osservazione rivelando il ruolo centrale ma intenzionalmente cancellato dell’Africa nella creazione della modernità, riformulando di fatto la nostra comprensione della storia del mondo.

I resoconti tradizionali della formazione del mondo moderno offrono un posto di primato alla storia europea. La storia dell’Africa, al contrario, è stata a lungo relegata nella remota periferia della nostra storia globale.

E quindi cosa fa French? Mette l’Africa e gli africani al centro della nostra riflessione – e della conoscenza – sulle origini della modernità, riformula la storia dell’Africa a partire dal Medioevo e le prime relazioni tra l’Europa e l’Africa dimostrando, tra l’altro, come l’ascesa economica dell’Europa, l’ancoraggio della democrazia in Occidente e la realizzazione dei cosiddetti ideali illuministici siano tutti nati dalla presenza disumanizzante dell’Europa con il dark continente, il continente nero, nel senso di buio, selvaggio.

Quindi, le narrazioni sono importanti perché permeano, impregnano il nostro modo di pensare e quindi poi di relazionarci con l’ambiente, con gli altri. E la cosa più difficile è riscrivere, ribaltare queste narrazioni. Perché le parole possono ingannare sulla realtà – se questa realtà non la si conosce, non la si approfondisce. Se ci fidiamo solo delle parole.

Voglio fare riferimento a quelle che sono pietre miliari dei diritti delle persone, dei diritti umani. Parliamo ad esempio della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America 4 luglio 1776. Ve ne leggo una parte di apertura, che è bellissima: Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità…

Ma questi diritti inalienabili non erano riservati alle donne e non ai neri, schiavi. Lo stesso Thomas Jefferson primo firmatario della Dichiarazione possedeva schiavi. Stesso concetto per dieci anni dopo in Francia con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini, 1789. I diritti erano quelli di una certa classe sociale, non per tutti.

Allora mi direte: ma era il XVIII secolo. Ok. Andiamo avanti. Nel 1948 nasce la Dichiarazione Universale (badate, universale) dei diritti umani con la volontà di evitare le atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale. E vi cito un articolo, l’articolo 13 che afferma che ogni cittadino  ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio.

Ecco, questo diritto – ancora oggi – viene garantito solo a una parte dei cittadini del mondo, guarda caso i paesi più ricchi e potenti, inclusa l’Italia, ma viene negato a milioni e milioni di cittadini. Cittadini prigionieri – dico io – nei propri Paesi o costretti ad affidarsi ai trafficanti di esseri umani che sono diventati un capro espiatorio per tutti quei governi che negano di fatto il diritto al movimento, il diritto a viaggiare legalmente con un visto come invece possiamo fare noi.

Perché dire queste cose? Perché i diritti per quanto ben declamati non sono mai stati veramente universali. E vorrei aggiungere che i diritti non sono appannaggio dell’Occidente.

Ho letto un’intervista fatta a Dacia Maraini, (e non capisco in realtà il motivo di quella intervista. Legata a quale specifico ruolo della scrittrice e a quali competenze sull’Africa?)

Ne cito solo una parte. La domanda era: “Che impatto ha avuto il colonialismo sui ruoli delle donne nella società africana?

Risposta: “Il colonialismo è stato un male perché era finalizzato ad appropriarsi dei beni dei paesi ricchi di materie prime. E ha peccato gravemente nel non occuparsi di creare condizioni di vita accettabili, come strade, pozzi, scuole, ospedali. Eppure, senza volerlo, attraverso i suoi intellettuali qualcosa delle conquiste sui diritti civili sono passati per via culturale. Non c’è dubbio che la storia dell’umanità comincia in Africa e nei tempi preistorici l’Africa era all’avanguardia in tutti i sensi. Poi è caduta in una specie di sonno storico che l’ha portata verso la povertà, lasciando che le nuove conquiste avvenissero in altri paesi. E bisogna dire che i paesi più ricchi e avanzati tecnologicamente ne hanno approfittato per depredare le ricchezze africane”. 

Forse si dovrebbero consultare e leggere più intellettuali africani che perdere ancora tempo a scrivere e dire cose completamente prive di verità storica, dannose e fortemente stereotipate.

Allora, a proposito di diritti e di cultura del diritto, diciamo così, vorrei ricordare che è l’Africa ad aver dato il primo contributo in questo senso – non l’Europa, ma l’Africa – con la Carta Manden, insieme di norme giuridiche concepito nell’Africa mandinga del XIII secolo. Gli Editti che la compongono sorprendono per la loro modernità e fanno comprendere come già nel 1200 fossero riconosciuti e codificati molti di quelli che oggi chiamiamo diritti umani.

Un documento che è espressione di una società evoluta: l’Africa, nell’epoca ‘medievale’, fu culla di splendide civiltà e caratterizzata da ricchezza e sviluppo culturale. E oggi La Carta Manden è Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO.

Ed è sorprendente il valore dato per esempio alle donne e persino al mondo animale.

Ve ne cito qualche estratto:

Ogni individuo ha diritto alla vita. Una vita non è superiore a un’altra.

Nessuno offenda le donne, che sono le nostre madri.

Questo lo cito perché mi diverte e incuriosisce: Il divorzio è legale e viene concesso su richiesta di uno dei coniugi, per alcuni motivi precisi: la follia di uno dei coniugi, l’incapacità del marito di assumere i propri obblighi (procurare adeguato sostentamento), il mancato adempimento degli obblighi coniugali e il mancato rispetto dei suoceri.

Le foreste devono essere preservate per la felicità di tutti.

Gli animali domestici devono essere messi in gabbia solo temporaneamente, o quando necessario per l’agricoltura e vanno liberati subito dopo il raccolto.

Torniamo a noi. Verificare l’applicazione reale delle diritti dichiarati in questi documenti equivale a verificare lo stato di civiltà delle nostre società. Perché i diritti sono spesso invece privilegi ma anche frutto di lotte. Come quelle, appunto, delle donne.

Lottare per i propri diritti, individuali e collettivi, prevede comunque consapevolezza e lo strappo totale di quelli che ci sembrano datti di fatto. Perché anche l’ingiustizia – anche questa basata su pregiudizi, il pregiudizio della superiorità, di quella che definiamo civiltà e quindi per contro pensiamo che tutto il resto sia inciviltà quando invece è solo alterità – ecco, anche l’ingiustizia ripetuta costantemente diventa ai nostri occhi normalità.

Il filosofo, storico francese Michel Foucault scriveva “In quanto esseri umani, diamo un’interpretazione fenomenologica della nostra esistenza quotidiana attraverso il discorso, un costrutto che media il nostro modo di essere nel mondo”.

E in Africa questo spesso si fa attraverso i proverbi. C’è uno studio pubblicato nel 2020 che analizza il rapporto tra proverbi e patriarcato, in sostanza un’analisi del pregiudizio linguistico e la rappresentazione delle donne nelle comunità Akan, qui in Ghana.

Si tratta di proverbi, massime, modi di dire che vorrebbero rappresentare e distinguere l’universo maschile e femminile di questo Paese sia storicamente che nei tempi attuali. Ma quello che spesso si spaccia per tradizione altro non è che la visione di una società maschilista e patriarcale, appunto.

A questo proposito vorrei ricordare – non è una raccolta di proverbi ma un testo sociologico – un saggio che in Italia ha fatto storia nel movimento delle donne, che è “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti. Riguarda i condizionamenti e gli effetti degli stereotipi nella formazione delle bambine e dei bambini a partire dall’infanzia.

Era il 1973 e vi assicuro che è uno dei trattati sul tema più interessanti che ancora si possano leggere. Perché faccio questo accostamento? Perché se pensiamo che la condizione femminile sia tanto diversa qui di quanto lo sia (e in parte, per fortuna, lo sia stata) oggi in Italia, in Europa, ci sbagliamo.

Anzi, dico di più: donne, intellettuali africane sono arrivate anche prima a fare certe riflessioni. Penso, per esempio, ad Efuru, un romanzo della scrittrice nigeriana Flora Nwapa, in sostanza il primo romanzo di una scrittrice africana ad essere pubblicato a livello internazionale. Era il 1966. Noi dovevamo ancora fare il 68, la rivoluzione sessantottina con tutti i suoi agganci ai diritti delle donne, alla sessualità, al lavoro e così via. Quello è considerato un romanzo femminista perché rivede la cultura dell’autrice, la cultura Igbo in chiave femminile.

E a proposito del femminismo africano, questo non si è mai appiattito né sulle modalità né sui contenuti delle donne in Occidente, ma ha agito e agisce con modalità e tematiche proprie che sono corrispondenti alla cultura africana, alla femminilità africana. Se avete voglia di approfondire, bisognerebbe leggere Sylvia Tamale, accademica ugandese e il suo recente “Decolonizzazione e afro femminismo”.

Ma torniamo un attimo agli Stati Uniti, il baluardo (!) dei diritti umani nel mondo. In questo Paese la posizione delle donne è stata in passato molto compressa, schiacciata in un ruolo che prevedeva per lei matrimonio, maternità, accudimento di figli e marito mettendo da parte ambizioni personali – di studio o di lavoro. E anche su questo tema mi faccio accompagnare da una fonte, perché non sono cose che mi invento io. Su questo, infatti, scrisse bene e dettagliatamente Betty Friedan, La mistica della femminilità.

E vi do un altro spunto di riflessione – su quanto il patriarcato e quindi il controllo del corpo delle donne decida su queste ultime, anche nei cosiddetti paesi civilizzati. Lo Stato del Sud Carolina (USA) ha introdotto recentemente un emendamento di legge affinché una donna che abortisce sia punibile con la pena di morte. (la chiamiamo civiltà? Una civiltà – quella degli USA – che può esportare il concetto di diritto?)

Quindi, pensiamoci bene, è davvero possibile giudicare la donna africana, le società africane secondo i nostri parametri?

Le donne africane lottano per i loro diritti al pari delle altre donne al mondo (apro un’altra parentesi, le più efficaci campagne e messaggi contro le mutilazioni genitali sono state portate avanti da attiviste africane).

La disuguaglianza di genere è una questione intersezionale dove lo stereotipo è il collante. Così come sono gli stereotipi che spesso ci spingono ad agire per conto degli altri.

Avere la presunzione di intercettarne i bisogni e insegnare come devono fare – purtroppo qui in Africa istituzioni e organismi occidentali lo fanno da sempre, comprendendo poco, in realtà, il mutamento dei tempi – è una forma di arroganza che ci acceca, ci impedisce di osservare le persone  per quello che sono e davvero desiderano senza bisogno che siano altri a suggerirlo.

In Tanzania, qualche mese fa, ho conosciuto una giovane donna, avvocato, attivista, si chiama Rebeca Gyumi, che ha portato lo Stato davanti all’Alta Corte contestando la costituzionalità di una legge – quella contenuta appunto nella Costituzione tanzaniana – che stabilisce l’età minima per contrarre matrimonio in 18 anni per gli uomini e 14 per le ragazze. Una legge dichiarata, appunto, incostituzionale e che favorisce con la complicità dello Stato i matrimoni precoci che in quel Paese sono molto numerosi e frequenti.

Ecco questa giovane donna non ha né avuto bisogno, né aspettato che qualcun altro, venuto da fuori, lo facesse. È stata tra l’altro insignita del premio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Ma voglio portarvi un altro esempio di arroganza e pregiudizio. Quando Vanessa Nakete, giovane kenyota attivista per l’ambiente nel 2020 partecipò al Forum mondiale di Davos avvenne che dalla foto di gruppo – scattata dalla Associated Press – delle principali attiviste che avevano preso parte ai lavori di Davos, lei – unica nera – venne tagliata. La sua risposta, netta e dirompente non si fece aspettare: “Non avete solo cancellato una foto. Avete cancellato un intero continente”.

Quando si è impegnati a giudicare la vita degli altri attraverso luoghi comuni e pregiudizi non riusciamo a coglierne le peculiarità, le conquiste delle altre donne. Ora abbiamo la nostra prima presidente del Consiglio donna. Negli Stati Uniti ancora non ci si è arrivati.

Invece proprio dall’Africa, per tornare al tema, a parte il ruolo di regine e donne leader del passato sono arrivati i primi esempi di donne capo di Stato. Per nominare le più note e che sono state in carica per più tempo ricordiamo in Liberia Ellen Johnson Sirleaf, prima capo di Stato eletta In Africa nel 2005 (quindi non per passaggio di potere) ma proprio votata dai cittadini. O Joyce Banda in Malawi. In Tanzania oggi la presidente è una donna.

E poi vorrei ricordarvi un’altra importante figura di donna africana che prima di molti, forse di tutti non solo in Africa, ma nel resto del mondo, capì l’importanza della questione climatica e anche che la giustizia sociale e i diritti per le donne passano anche dal rispetto della natura, dell’ambiente. Un ambiente sempre più violentato non solo dagli effetti dei cambiamenti climatici, ma da guerre e dall’avidità dell’uomo.

Questa donna è Wangari Maathai, prima donna africana a ricevere il premio Nobel per la pace. A lei si deve la nascita del Green Belt Movement in Kenya appunto. E noto che anche Vanessa Nakete è kenyota (che qualcuno si ostina a definire la Greta Thunberg africana). Quindi gli esempi, i buoni esempi, vengono raccolti dai giovani africani. E sono esempi propri, nati in casa propria, persone che hanno quindi saputo parlare ai giovani e lasciare un segno.

Ecco, di storie e di esempi, appunto, se ne potrebbero portare tanti. Quello che ci serve capire, sottolineare è che la forza delle donne, nostra come delle donne africane, nasce da dentro e si sviluppa in modi autonomi, trova e troverà strade proprie, ha bisogno di parlare il proprio linguaggio.

Molti vogliono tenersi stretta l’illusione che sta nella parola eurocentrismo, affermando che i danni della società oggi risiedono nel relativismo. Il pensiero divergente ha sempre fatto paura. Ma a me sono altre le parole (e gli atteggiamenti) che fanno paura. Sono radicalismo, assolutismo, oscurantismo, neo colonialismo.

Libertà non fa rima con relativismo ma vuol dire il diritto di pensare in modo autonomo, fresco, originale.

Da quel tempo in cui avevo paura – quando ero adolescente – di non trovare una mia strada, di non riuscire a pensare con la mia testa, sono passati molti anni. E comunque è stato costruttivo avere quel timore. Perché mi sono domandata da dove provenisse e penso che sia stata questa la spinta alla mia personale libertà, al mio modo di voler scoprire il mondo. La mia spinta ad essere qui, in questo Paese che mi ha dato veramente tanto.

Antonella Sinopoli

[Intervento che ho tenuto alla Piccola Biblioteca Italiana ad Accra – 8 marzo 2023]

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