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Lo slum e l’arte di sopravvivere

Uno slum è un luogo dove esiste un solo bisogno primario: sopravvivere. Lo stesso bisogno che ha portato lì la gente che ci vive. Ultima stazione dei viaggi della speranza. Lo slum è un luogo negletto, maledetto. Dove si muovono formiche organizzate ma dalla vita breve.

È un’organizzazione anomala quella degli slum: si dorme, si mangia, si lavora, si fanno figli con schemi disumani – o meglio, di un’umanità impropria. Chi vivrebbe camminando attraverso fogne e rifiuti? Chi vivrebbe nell’ombra costante della società che circonda lo slum? Chi vivrebbe nel disprezzo e lo sguardo schifato del mondo intorno?

Lo slum è un pugno nello stomaco delle nostre società votate al consumismo come fosse una religione, delle nostre vite luminose e impegnate costantemente a fare qualcosa. Un pugno nello stomaco alle organizzazioni internazionali che spendono milioni di dollari all’anno “per eliminare la povertà”. Un pugno nello stomaco per chi, per una ragione o per l’altra, le attraversa.

Ed è la protesta estrema verso Governi e società che non riescono ad assicurare una vita decente ai propri cittadini.

Ricordo quello di Kibera a Nairobi e quello di Kireka a Kampala. Ma soprattutto ho negli occhi e nel sangue quello di Accra.

Ho trascorso qualche giorno ad Agblogbloshie, sobborgo della capitale ghanese, meglio (o peggio?) noto come Sodoma e Gomorra.

Non si sa bene quante persone ci vivono – e come si potrebbe? la maggior parte non ha neanche un documento. Si parla di 70-80.000. Molte, troppe, sono impegnate nella grande discarica di e-waste. Si tratta di materiale elettronico, cellulari, computer, ma anche frigoriferi e auto, che l’Occidente invia in questo Paese e che dopo essere stato utilizzato – se va bene per qualche mese, dai ghanesi che possono permettersi gli acquisti di prodotti europei o americani di seconda mano – finiscono qui.

Tutto in Africa può essere riutilizzato, l’ho imparato – a mie spese, ma anche a mio vantaggio – vivendo in un villaggio rurale. Il problema in Agbogbloshie è che a mani nude si “pesca” negli “oggetti morti” per estrarne il possibile da rivendere. E si brucia, dalla plastica ai fili elettrici ai copertoni di autobus e camion. Il guadagno? Dai 10 ai 20 Ghc al giorno (2-4 euro).

Fumi neri di diossina e altre sostanze inquinanti si alzano ovunque, si gettano nell’aria che si respira, così come gli elementi tossici scavati e ricavati dai prodotti e-tech arrivano nella laguna circostante e poi nel mare.

Avrei dovuto sentirmi nell’inferno, eppure no. La forza di questi uomini e donne – e dei loro bambini – mi ha rivelato quello che c’era da sapere.

Sopravvivere non è l’ultima chance di un essere umano, sopravvivere è un’arte. È l’arte dell’uomo che lotta. È l’arte dei bambini che crescono soli. È l’arte delle donne che si affannano ogni giorno per rimanere integre e forti.

La povertà non è una iattura individuale. La povertà è un cancro della società. Qualcuno pensa di esserne immune standone lontano, qualcun altro pensando che il problema non lo riguarda. Altri ancora lo liquidano incolpando governi e istituzioni. E altri fingono di poterlo guarire con programmi e denaro, spesso spesi male o buttati al vento.

E noi? Noi, singoli essere umani, che responsabilità vogliamo assumerci?

Nella povertà, nel degrado, nell’umiliazione a cui è costretto l’essere umano, bisogna entrarci dentro. Bisogna sentirle e toccarle certe cose per avere – se ci sforziamo – una visione d’insieme. Un insieme in cui tutti siamo dentro fino al collo, abitanti dello slum e abitanti di case e città confortevoli.

Lo slum è l’immagine buia della nostra società, del nostro bel villaggio globale Ci piaccia o meno lo abitiamo anche noi, nelle vite di coloro che si muovono come formiche laboriose per sopravvivere.

Ed un uomo sulla terra, lo voglia o no, ha il dovere di farlo, ha il dovere di sopravvivere. E ha il dovere di scoprire che può farlo anche nelle circostanze più incredibili, degradanti, disumane.

Chi è altrove avrebbe almeno il dovere di riflettere.

È strano, mentre scrivo risento la puzza di fogna, impossibile da sopportare, la gola mi si stringe per gli acidi che ho respirato, il disagio si fa strada nella mia mente così come nel corpo… Eppure, la sensazione più forte è un’altra, quella del cuore che si allarga, mentre ricorda la gente che ho incontrato, sfiorato, toccato.

Quando sono stata a Kibera e Kireka ero nuova all’Africa e al tempo mi veniva da piangere. Ora non più. Ora guardo e imparo. Il coraggio degli esseri umani e l’arte della sopravvivenza. Guardo e penso diversamente di questo mondo che abito.

[Tutte le foto sono di Antonella Sinopoli. Se riprodotte deve essere citata la fonte.]

bruciasg

 

 

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